Appunti di Luglio

28 luglio, 2011 § 1 Commento

Le vacanze scolastiche sono davvero lunghe. Per chi è abituato alle ferie di due settimane (al massimo tre), due mesi abbondanti di sospensione delle attività sono sufficienti a fare scattare il sospetto d’essere stati estromessi dal posto di lavoro.  Per chi avesse poi a proprio carico un’esperienza di cassa integrazione, è evidente la sensazione d’esserci ancora dentro, essendo pagati per non fare nulla. D’altronde la parola vacanza rimanda al latino vacuum, che significa vuoto. Un’altra cosa sono le ferie, giorni tenuti liberi a forza dagli impegni  lavorativi.  In vacanza il lavoro non si vede, neanche dietro l’orizzonte, e la scuola è il ricordo lontano di un’altra vita.  Così mi sveglio di buon’ora la mattina, con l’ansia di fare qualcosa.  I sogni dell’alba mi dicono che sta per cominciare la campagna delle barbabietole e devo assolutamente calibrare le apparecchiature dello zuccherificio. Gli operai sono scomparsi ed io faccio di tutto per entrare in fabbrica, ma la porta è soltanto un cunicolo a fondo cieco. Vado in aeroporto, all’arrivo dei tecnici specialisti dalla Danimarca. Non c’è ancora nessuno e nel tabellone degli arrivi trovo scritto, in lingua straniera, una parola che significa “domani”.

Il tempo ristagna nel luglio assolato dall’inizio alla fine. Per fortuna è arrivata la pioggia, a rompere il giallo cocente della canicola. Due mesi di gestazione sono serviti alla burocrazia scolastica per assegnarmi un posto in graduatoria nell’anno che viene. Ma io stanotte ho sognato ancora la fabbrica. Aveva un un aspetto ridotto, quasi giocattolo. Gli operai al lavoro fra le barbabietole nel piazzale mi pareva di conoscerli tutti, amici del nonno, dicevano che quella era la fabbrica del 1960, così come appariva nel giorno dell’inaugurazione…

(I account it hight time to get to sea as soon as I can.)

Verso il Circeo

27 luglio, 2011 § 2 commenti

La via Appia scende giù inverosimilmente diritta nella pianura fino a Terracina, dove una rupe a picco sul mare -come la freccia di un arco teso fra l’antica Roma ed il Mediterraneo- la fa curvare. Montagne imponenti dai profili arrotondati si alzano all’improvviso dalla bonifica e sembrano messe lì, di cartone, per dare un limite al paesaggio. La differenza fra questa pianura e la “bassa” ferrarese comincia dal confine massiccio dei Monti Lepini. Nella pianura pontina il paesaggio non  è libero di evaporare in una lontananza incognita, nè verso l’entroterra, nè verso il mare, dove il profilo asimmetrico del Circeo fissa la distanza.  Manca la foce incerta di un grande fiume che rimette in gioco la linea di costa ad ogni mareggiata. Le dune litoranee sono modellate dalle onde e dal vento, secondo un profilo antico che da millenni allaccia il Circeo alla terraferma. Fra la duna litoranea e la più antica linea di costa nascosta nell’entroterra c’è il relitto di un fondale marino che i brevi corsi d’acqua scesi giù dalle montagne non riescono a colmare. I  fiumi qui non fuggono davanti a se stessi in reti tortuose di canali pensili che invadono il mare.  Non ci sono argini che chiudono l’orizzonte. Ai braccianti abituati agli allagamenti del Po le paludi pontine devono essere sembrate un gioco da ragazzi: livellare la pianura e canalizzare le acque, un lavoro da antichi romani, degno dei migliori destini di Roma.

Una doppia fila di pini ricurvi, altissimi e con l’ombrello largo, accompagna il viaggio per decine di chilometri ai lati della strada diritta. Cent’anni fa Luigi Bertarelli descriveva commosso un paesaggio diverso nelle pagine della sua Guida d’Italia.  Ai lati della strada Bertarelli vedeva gli olmi, alberi vallivi di una campagna antica. I tronchi contorti dei pini marittimi che li sostituiscono fanno esplodere contro il cielo le chiome sempreverdi: ispirano fughe rumorose di macchine futuriste, le corse verso il mare ed i sorpassi imprudenti di auto sportive decappottabili. Sembrerebbe una strada moderna tagliata attraverso la bonifica, invece è lì dall’epoca del console Appio, duemila e duecento anni fa. Le distanze sono scandite da caseggiati uguali che tradiscono origini antiche, anche se non romane, perlomeno settecentesche. La bonifica è roba d’altri tempi, ma non è mai stata una conquista definitiva. Se l’acqua non scorre, ristagna. Quando i romani colonizzavano nuove terre, inventavano pianure agricole dove prima c’erano gli acquitrini. All’ inizio del Novecento la pianura pontina era ancora un progetto incompiuto, per mancanza di gente assidua che coltivasse la terra. Luigi Bertarelli restituisce nella sua Guida d’Italia l’impressione di un paesaggio primordiale, non triste, non malsano, ma abitato dalla sporadica presenza di mandrie al pascolo e di pescatori di rane. L’aria del Tirreno spazza la pianura pontina, il cielo è sempre in movimento.

I segni della bonifica fascista affiorano nei nomi dei borghi che colonizzano la pianura e spargono nei cartelli stradali il ricordo dei monti e dei fiumi veneti della prima guerra mondiale. Al centro della bonifica c’era uno zuccherificio, a Latina, fiore all’occhiello della tecnologia fascista. Vorrei vedere se rimane qualcosa, almeno l’involucro della fabbrica chiusa vent’anni fa, ma la strada corre in un’altra direzione, verso il Circeo, capolinea della pianura. La fortuna del monte ha origini antichissime.  Le grotte affacciate sul mare offrono un repertorio di testimonianze antropologiche che affondano nella preistoria, con una straordinaria continuità. Le grotte aiutano la fantasia, ma Circe, la maga di Ulisse, si impadronisce del luogo solo per l’assonanza del proprio nome con quello latino del promontorio che significa “rotondeggiante“. In alto sulla scogliera un faro imponente illumina la notte del tirreno con un fascio regolare, luce e ombra, senza pause. La burrasca rompe le onde sulle falesie, un rumore di eternità al rallentatore. Il tempo perturbato non aiuta la vacanza, il lungomare è semivuoto in un sabato di Luglio. I romani ricchi, frequentatori di queste spiagge negli anni della dolce vita, hanno abbandonato il Circeo già da un po’. Ora preferiscono il monte Argentario, più grande e selvaggio, per certi versi simile al Circeo, ma immerso in una fase più antica, ancora lagunare, nella storia delle pianure costiere del Mare Tirreno.

Santarcangelo

19 luglio, 2011 § Lascia un commento

C’è la scritta “biglietti” nel chiosco pseudo-antico di metallo all’angolo della piazza che porta il nome di papa Ganganelli.  Quando nel 1769 prese il nome di Clemente XIV, i Santarcangiolesi costruirono un arco trionfale per il loro concittadino più illustre, alla moda degli antichi romani, poco lontano dalla biglietteria del Festival.  A guardarla bene, anche senza spettacoli, questa piazza è già un evento teatrale.  L’arco ed i palazzi neoclassici la cingono su tre lati, mentre il quarto, frastagliato, la raccorda al  borgo medievale avvitato attorno al piccolo monte Giove.  Visto dalla pianura sottostante sembra proprio un monte, con la torre neogotica in cima.  Il Festival internazionale del teatro in piazza fa da sottotitolo al nome “Santarcangelo dei Teatri” che rende merito ai molti palcoscenici naturali di questa cittadina affacciata sulla strada per Rimini, così diversa da Rimini.  I moderni condomìni sbilenchi rivestiti di piastrelle si sono arenati altrove, lontano dalle falde del monte Giove, che è cinto ancora di mattoni ed è introdotto dal respiro ottocentesco delle piazze e delle vie larghe da grande città: luogo d’altri tempi e possibilità marginale di un presente che in ogni direzione si sta riminizzando.

Sembra che a Santarcangelo ci sia una consuetudine con gli spazi teatrali, dettati probabilmente da un’ansia vecchia di oltre due secoli, dovendo adeguare il borgo alle parate celebrative di un Papa.  Dalla stazione al centro, il viale potrebbe reggere un esercito e gli abitanti non riescono a saturarlo neppure oggi.  Anche la stazione sembra imponente, sebbene sia nata che il papa non c’era già più, da almeno cent’anni.  Nel 1769, dopo tre mesi di conclave, le  fazioni opposte dei cardinali romani trovarono a fatica un accordo sul nome di Ganganelli, francescano di provincia, come era avvenuto con Sisto V due secoli prima.  Per tradizione francescana, Papa Ganganelli si sarebbe dovuto chiamare Sisto VI, ma  preferì un nome meno carico di assonanze.  Diventando Clemente XIV, non allontanò comunque le ombre della superstizione ed il suo pontificato durò esattamente quanto quello di Sisto V: cinque anni, quattro mesi, tre giorni.   A Santarcangelo di Romagna la cabbala del papa urbanista raggiunge il nord Italia.  Perfino la stazione ferroviaria sembra portarne traccia:  limpida, grande, luminosa, proitettata verso sviluppi che non ci furono, fra Ottocento e Novecento.

Coi nonni andavo al mare in treno, da Forlimpopoli a Rimini, ogni mattina di Luglio alle sette e cinquanta.  Quel treno si chiamava accelerato, non perchè andasse veloce, ma al contrario, perchè si fermava in tutte le stazioni.  Il caldo impregnava l’odore sintetico della plastica di certe carrozze di prima della guerra, rifatte negli anni cinquanta.  Per questo il nonno preferiva i sedili di legno di altre carrozze che avevano lo schienale sagomato in una forma elegante degli anni Venti.  Le soste nelle stazioni erano sempre troppo lunghe.  Bisognava aspettare che il servizio postale facesse il suo mestiere e poi, prima di ripartire, il capotreno doveva controllare la chiusura degli sportelli di tutte le carrozze.  Ce n’erano tanti, se si pensa che in quegli anni -siamo attorno al 1975- erano ancora in servizio le carrozze cosiddette “centoporte”, accompagnate dal rumore a raffica degli sportelli che si aprono e si chiudono in tutte le stazioni.  Il nonno diceva che le “centoporte” erano migliori, perchè si sale direttamente dove c’è un posto libero.

Dopo il lungo rettilineo padano, alle porte di Santarcangelo il treno piega in una curva solenne.  Guardavo arrivare la stazione, più grande di quelle degli altri paesi sulla via Emilia ed anche più antica.  Senza le tracce dei rifacimenti del dopoguerra, l’ombra della vecchia pensilina faceva più fresco.  C’era una settimana in cui saliva gente insolita, vestita in modo eccentrico, che raggiungeva la spiaggia e rientrava poi nel pomeriggio col treno dell’una.  La nonna guardava a bocca aperta, anzi si affacciava al finestrino per vedere se comparivano le sagome di certa gente che aveva imparato a riconoscere.  In particolare c’era un tipo atletico dall’aria tedesca e di età indefinita, che saliva in treno a Santarcangelo  con una valigetta scura su cui era scritto Dr. Juni.  A Rimini in spiaggia faceva strani esercizi a corpo libero, che oggi chiameremmo Yoga, ma che allora lasciavano attonita la nonna.  Quello era il Dottor Juni! Chissà chi era, chissà cosa faceva nella vita…  Ci ho pensato parecchi anni dopo, che forse era un attore, come gli altri personaggi insoliti che facevano la loro apparizione a Santarcangelo, tutti gli anni, una certa settimana di Luglio.

Il Festival di Santarcangelo ha una tradizione lunga.  Quest’anno c’è stata la quarantunesima edizione, di nuovo giocata negli spazi storici del paese.  Le sedie in piazza hanno recitato giorno e notte una parte, muta ma espressiva, al centro della città.  Dall’alto della torre civica, la voce di Mariangela Gualtieri ha proclamato un salmo laico, ogni sera al tramonto, come l’Arcangelo che incarna lo spirito del luogo.  Per vedere gli spettacoli bisogna mettersi in fila, con il gusto di scoprire qualcosa di insolito, che può piacere, ma anche no.  La recita dello spettatore è nell’attesa.

Ventimila clic

18 luglio, 2011 § Lascia un commento

La scorsa settimana il contatore di questo blog ha superato i ventimila accessi.  Non sono tantissimi, ma non sono neppure pochi, in meno di tre anni. Le statistiche di WordPress non si limitano a fornire questo numero, dicono anche quanti accessi derivano da link pilotati da altri siti e quanti invece sono il risultato di ricerche di google.  Prevalgono gli accessi tramite google, molti dei quali sembrano piuttosto casuali e guidati dalla ricerca di immagini.  Non credo che ad ogni accesso corrisponda una lettura. Ormai i dispositivi mobili sono preponderanti e l’accesso alla rete viene effettuato sempre più spesso tramite Iphone e Blackberry,  per catturare informazioni rapide, non per leggere esperimenti letterari.  Contrariamente ai blogger più in voga, che di questi tempi alleggeriscono contenuti e templates, per facilitare la consultazione e renderla fruibile anche sui monitor dei minuscoli dispositivi mobili, da circa un mese io ho attivato un nuovo template  che avvicina il formato di questo blog a quello di un content management system (CMS), con l’intenzione di aprire nuove pagine, per indicizzare i post secondo la struttura del racconto lungo, in un menù a parte.    Per questo motivo non credo che perderò la stima dei miei lettori.  Se d’altro canto scrivessi cose brevi in un formato adatto all’ Iphone,  la stima distratta dei casuali lettori aggiuntivi non aumenterebbe in modo significativo.

I miei post trovano fisionomia e ritmo in storie brevi di poche migliaia di batture.  Sul web richiedono un tempo sufficientemente lungo da sfidare la pazienza del lettore.  Ma è questa la misura giusta per la scrittura on-line, ne sono convinto, il resto sono chiacchiere.  La vetrina del web permette al lettore di entrare in una scrittura in gestazione, un pezzo dopo l’altro.  Nel discorso in divenire, la compiutezza passa in secondo piano, ma un senso compiuto si coagula da qualche parte nella rete, coi pezzi lasciati cadere in fila nel blog, un post dopo l’altro.

Chi ama definirsi artista, di questi tempi, sa che la promozione dì sè è parte preponderante dell’opera d’arte.  Non posso dire di essere artista, ancora, se esaurisco me stesso nei pezzi racchiusi qui dentro, un post in  ogni cassetto, con le chiavi assegnate ad un centinaio di amici, non tanti di più.

Il confine della fabbrica

12 luglio, 2011 § 2 commenti

Qualcuno è ancora in cassa integrazione dopo cinque anni, alla SFIR di Forlimpopoli. Sembrava se ne fossero andati tutti volontariamente un anno fa. Alcuni, pochi, avevano deciso di restare, con la promessa sbandierata di un posto di lavoro obbligatorio nella sede riconvertita, da produttori a confezionatori di zucchero bianco: uno zucchero prodotto altrove, in Europa o in America del sud  e trasformato a Forlimpopoli in bustine made in Italy, da mettere nel caffé. Quando al bar vi offrono bustine di zucchero gonfie più del dovuto, guardate, probabilmente è stato confezionato qui, nell’ex zuccherificio SFIR. Era un’astuzia del caporeparto, risparmiare sul costo delle confezioni mettendo più zucchero in ogni bustina. Lo zucchero viene venduto “a peso”, non “a bustina”.

Alcuni operai è meglio lasciarli a casa in cassa integrazione (dicono) perchè non accettano di fare qualunque lavoro a qualunque ora.  Volevate le tutele sindacali, godetevi allora questa cassa integrazione, cinque anni e cinque mesi di attesa, con la certezza di non essere graditi al capo e l’invito implicito a cambiare aria. A questa categoria di lavoratori non sono bastate le promesse finte e le paure orchestrate ad arte. Sono interpreti di una autodissoluzione, vittime loro malgrado di un esperimento antropologico. C’è chi si chiude in grotta per studiare le reazioni fisiologiche che si sviluppano a seguito di situazioni anomale prolungate. Loro si sono rinchiusi in cassa integrazione. Qualcuno però al lavoro c’è, nella sede SFIR riconvertita BUTOS, a Forlimpopoli, in un angolo dell’area dov’era la ex-fabbrica. Pochi operai, pochi camion al giorno, pallida eco della vita che c’era al tempo delle barbabietole. La recinzione ancora intatta sigilla il contorno con cura, ma dentro spuntano solo i fabbricati dei magazzini: parallelepipedi e cilindri, le forme di una geometria scarna presidiano gli angoli contro l’illusione di una negoziazione pubblica di quell’area che resta privata, futura fabbrica di edilizia residenziale senza spazio attorno.

Il recinto dà importanza allo spazio vuoto che resta dentro, dove la memoria stenta ormai a collocare le forme aggrovigliate dei tubi, le vetrate delle finestre alte incardinate al centro del luogo che c’era prima della demolizione. Quando la fabbrica esisteva, quel muro di cinta non sembrava così imponente, fatto di metallo, di cemento e di plastica insonorizzante. Ma ora quel recinto ha un compito immane, dovendo reggere la pressione del vuoto che racchiude al suo interno. Il muro di confine è fatto a strati, si allarga in segmenti frastagliati. Ricopre un perimetro a zig-zag e vi si legge sopra la storia di astuti compromessi, promesse incompiute. Quanti segni si sono accumulati in cinquant’anni. Dalla nascita alla dissoluzione della manifattura è trascorso mezzo secolo, eppure, in un periodo così breve per la storia millenaria del luogo, le forme di una produzione mastodontica hanno avuto il tempo di imporsi e di scomparire, lasciando traccia di sé nel perimetro di un’area strana che racchiude il vuoto, fra i bastioni fossili del silo e degli ex-magazzini, ossi-di-seppia.

Il sole di Luglio sollecita a guardare dentro oltre il recinto. Le macchine della fabbrica irrimediabilmente vecchie risuonavano sotto i colpi dei martelli che le aggiustavano per la penultima volta, o forse l’ultima, qualche anno fa. Gli alberi disegnati dal progettista attorno al muro di cinta erano ancora troppo piccoli per fare ombra. Il disegno dell’ultima recinzione prevedeva un contorno di piante sul confine, per diaframmare lo spazio e proiettare un’ombra sulla sosta riarsa dei camionisti in attesa ai cancelli, con le barbabietole da scaricare.  Impegnati in commesse produttive, i tecnici dello zuccherificio dileggiavano quegli alberi che erano stati concessi come moneta di scambio, in uno sciocco braccio di ferro con l’amministrazione pubblica che avrebbe dovuto accollarsi, in cambio, una dose massiccia di automezzi pesanti nella rete viaria urbana. Gli alberi previsti dal disegno esprimevano solo una buona intenzione da spendere sul tavolo della trattativa. L’astuzia del contrattista non fissava le dimensioni minime delle piante, che potevano essere scelte fra le più economiche di un vivaio, praticamente germogli. Fino a qualche anno fa nessuno le notava, ma ora sono diventate adulte ed il paesaggio restituisce l’impronta delle buone intenzioni di vent’anni fa, fuori fase e ormai lontane da questo presente. Gli artifici dell’industria hanno colonizzato il paesaggio, nei tempi e nei modi di un gioco illusionistico, con apparizioni rapide, mostri profondi trattenuti nell’immaginazione. Nel caldo del pomeriggio gli alberi rispondono adesso al vento leggero. Avrebbero potuto svolgere anche loro una parte nella storia industriale della fine del ventesimo secolo, ma sarebbe stata un’altra storia. Sotto le foglie non resta che il silenzio, una voce di donna che chiama da lontano ed il rumore nervoso di due motorini, di seguito l’uno all’altro, in curva senza rallentare.

Zimmer Frei

10 luglio, 2011 § 2 commenti

Abito al mare, in un posto dove l’espressione Zimmer Frei significa ancora camere libere per i turisti di lingua tedesca -pochi a dire il vero- che scendono in riviera d’estate, confusi ormai fra le lingue  di altre etnie slave ben più numerose ma di secondo piano negli annunci turistici, che privilegiano l’espressione tedesca zimmer frei, come se si trattasse di un passpartout linguistico, un archetipo nello spazio mentale della stagione turistica che si rinnova sempre, uguale a se stessa, nonostante gli anni. L’espressione zimmer frei galvanizza in un corto circuito anche l’immaginazione di un gruppo di artisti contemporanei che si fanno chiamare così –camere libere- quasi a voler lasciare allo spettatore la libertà di colonizzare gli spazi della creazione artistica, con una visione libera, da esploratore in vacanza. Fino al 28 Agosto Zimmer Frei sono in mostra con Campo Largo nel nuovo Museo d’Arte Moderna di Bologna, intrappolati nel nome buffo del MAMbo, tutta l’estate. Il curatore Stefano Chiodi emerge dal sottofondo come un deus ex-machina al quale verrebbe da riferire non solo la regia della creazione, ma anche l’invenzione degli autori. Il tentativo di una mostra fotografica resta confinato nella sala laterale, dove le foto di paesaggio sono appoggiate a terra,  in attesa di una collocazione alle pareti. Il messaggio di queste immagini nascoste a vicenda in una successione apparentemente casuale, sembra trattenuto nel “non ancora”, nel “non più”, nel “non finito” dell’allestimento, opera d’arte in sè. La voce della narrazione filtra attraverso altri canali: i video la fanno da padroni, a cominciare dai quattro monitor che accolgono il visitatore nel vestibolo semibuio, come sfingi all’ingresso di un tempio.

Quattro filmati narrano quattro città diverse dal punto di vista di un osservatore che gira lento su se stesso, con un moto simile a quello della terra che ruota una volta al giorno. La proiezione accelera il panorama della ripresa e fa scorrere in pochi minuti la carrellata. Quello che accade nella scena viene accelerato ed assume la velocità di un pensiero che ricorda, di un sonno che rielabora. Il moto ciclico è ipnotico. Brevi stacchi sui dettagli delle scene ribadiscono la possibilità di canali simultanei della percezione visiva. Il tempo sintetico di questa narrazione penetra lo sguardo e fa sembrare ingenuo il tempo cinematografico consueto, che fissa il metronomo sull’abitudine del ritmo condiviso della realtà. I video aggiungono all’arte una nuova variabile -il tempo- e moltiplicano gli effetti illusionistici nella quarta dimensione. Anche la musica permette questa magia.   Basta rallentare un carrillon per allargare l’orizzonte della percezione. Ha un peso anche il vuoto, nel salone centrale, sotto l’enorme rete ricurva che ondeggia e sottende una relatività di spazio e di tempo.  I carillon al rallentatore dilatano la percezione e proiettano in una dimensione storica perfino i video-spazzatura dei talk show delle reti italiane, che occupano un monitor, nella sola posizione illuminata della sala, su un tavolo che sembrerebbe quello di uno studio. Simulata in un vecchio registratore a bobine, la registrazione di una lunghissima conversazione di lavoro, di raccomandazioni e di ricatti, completa la restituzione ferocemente realistica di una certa idea dell’Italia. In un ambiente criptico, diaframmato da una tenda Kitsch, coloratissima, da bar del sud, il fuoco converge infine sul tema del lavoro. Alcuni documentari fanno scorrere di nuovo il tempo come in un film e raccontano la storia di gente orgogliosa della propria attività.  Sono storie di emigranti. E’ una provocazione aggiuntiva, rispetto a quella dei volti che forano il video con la dichiarazione: “…non farò figli per questo paese”.

Di giovedì il MAMbo resta aperto fino alle 22.  Ci si può andare prima dei concerti e prima del cinema in piazza.  Di sera, d’estate, certe strade del centro di Bologna hanno l’odore accogliente di un nuovo mondo pieno di gente. Via del Pratello come New Orleans. Altro che Rimini.

Finiture di pregio

3 luglio, 2011 § 2 commenti

Via Calabria a Pinarella di Cervia rigurgita traffico la domenica mattina. Una strada si servizio per gli agricoltori di cent’anni fa, da dieci anni è un cardine dello sviluppo urbano del nuovo millennio. L’edilizia di pregio della riviera romagnola, le seconde case per il sole dell’estate, nascono così, aggrappate ad una strada stretta che taglia le distese agricole degli orti senza tempo, senza marciapiedi, nè a destra nè a sinistra.  La pubblicità delle agenzie immobiliari sintetizza le offerte da favola per i sogni del week-end: pochissimi metri quadrati calpestabili, dove anche i cortili sono metratura di pregio, recintati da muri bassi ma solidi, per ribadire il significato “edile” di ogni superficie privata calpestabile ed acquistata a caro prezzo.   Finiture di pregio è la formula magica che apre prospettive commericali insperate per le case costruite su una strada stretta, dove le auto di grossa cilindrata in sosta imbottigliano il traffico che scorre a singhiozzo in un sostanziale senso unico alternato. La campagna agricola attorno rende paradossale la viabilità ristretta su cui affacciano le nuove costruizioni.  L’astuzia di centellinare le superfici edificabili, che i venditori cercano di moltiplicare miracolosamente nelle proprie tasche, si insinua nel paesaggio come un artificio astruso. Nella percezione ribaltata dei vacanzieri, gli orti e la campagna, l’orizzonte portante del paesaggio, diventano  un sottofondo insignificante da riempire con i ritrovati delle nuove soluzioni edilizie, che rendono i nuovi appartamenti simili ad elettrodomestici minuscoli, su misura. Le luci colorate degli allarmi antifurto e altre automazioni all’ultimo grido della domotica, fanno brillare di sera le nuove costruzioni di pregio come le piste di aeroporti giocattolo. Queste abitazioni entrano in scena nel paesaggio come container super-tecnologici, calati a terra dall’alto ad opera di gru giganti che potrebbero riappropriarsene e farli sparire, con lo stesso capriccio che all’improvviso li ha materializzati. Come nelle down town del mid west americano, la materialità del cemento si scontra con la sostanziale apparente provvisorietà delle nuove costruzioni, appoggiate a terra come accampamenti, al posto degli orti e delle case agricole che la consuetudine di intere generazioni radicava nel paesaggio.  Quando appariva una costruzione nuova, fuori scala o fuori luogo rispetto al territorio, calata dall’alto per la volontà di un ricco potente, in passato gli si attribuiva un’ascendenza diabolica. Per questo motivo il diavolo compare talvolta nei nomi antichi di case, di palazzi e di ponti. Ma il diavolo non ha smesso le sue apparizioni. Ormai d’abitudine manifesta se stesso nei piani regolatori dei comuni italiani. Dice che l’orizzonte non è più importante. Offre finiture di pregio e cortili rettangolari murati davanti casa, come piccoli cimiteri. Offre strade strette ma auto di grossa cilindrata. Indica un presente incompiuto e grandi sogni per l’avvenire.

Negli orti dietro casa, dove le nuove costruzioni non hanno ancora avuto il sopravvento sulla campagna, mi sorprende la sopravvivenza della stessa agricolura di cinquant’anni fa. I motori delle macchine e dei trattori fanno un rumore assordante. Non hanno beneficiato dei ritrovati tecnologici che si riversano nella nuove applicazioni domotiche dell’edilizia di pregio. Fra il vecchio e il nuovo corre una faglia. Non è la terra che si trasforma, qualcosa scorre sopra, qualcos’altro resta. La trasformazione è lenta e lascia supporre che, anche fra un tempo infinito, il nuovo non prevarrà. L’ortolano abbronzato senza maglia, che muove la terra con un motore furioso condotto a mano, ha il profilo dei geroglifici egiziani. Dietro di lui avanzano in fila gli aiutanti neri, silenziosi e pazienti. Sull’altro lato della strada vedo invece una famiglia intera, una giovane donna nera di capelli e di trucco, nervosissima, alle prese con le pulizie del nuovo appartamento rifinito di pregio. Spazza le scale e grida ad alta voce: se la prende con questo e con quello, come una naufraga dell’Isola dei famosi.

Dalle finestre vedo tutto questo: la sopravvivenza di un orizzonte antico e sofferenti novità, consolate da nuovissime finiture di pregio. La prospettiva di un mondo nuovo, moderno, supertecnologico, non contiene interamente il futuro. Le finiture di pregio invecchiano e si trasformano in rottami, più in fretta degli attrezzi agricoli di cinquant’anni fa. Le novità eccitanti invecchiano prima di giungere a compimento, mentre le  antiche abitudini sperimentano nuovi revival. L’intromissione di aspetti contraddittori, rimescolati l’uno dentro l’altro, è la cifra della realtà con cui facciamo già i conti…

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